Una lingua, tante lingue

All’inizio dell’atelier i partecipanti si sono sono confrontati sul titolo da dare al nostro percorso di scrittura. Cammino. In cammino. Storie deliziose e un po’ dolorose. Approdi. Naufraghi. Storie migranti. Eppure a mettere tutti d’accordo è stata la parola di una donna marocchina, Alham. Così il titolo del nostro atelier è diventato Radici, innervature che danno sostanza alla vita di una pianta/persona, innervature che possono essere tagliate e spezzate, innervature che cambiano direzione a seconda degli inciampi, degli ostacoli incontrati, sempre alla ricerca di condizioni favorevoli per dare nutrimento. Nella sua semplicità ho trovato questa parola illuminante, espressione dello sforzo sottotraccia compiuto da tutti nel rimanere in equilibrio fra il noto, il familiare, il quotidiano e il nuovo, l’inatteso, ricco di tensioni e possibilità.
Si tratta di un’immagine che rimanda senz’altro anche ad un aspetto fondamentale della persona: il rapporto con la propria lingua, con le proprie lingue d’origine e con le lingue con cui nelle varie esperienze della vita ognuno di noi viene in contatto. Dalla metà dello scorso decennio si è fatta strada, con un’accelerazione sempre crescente, l’attenzione alle lingue parlate dagli allievi in contesti multilingui, in misura minore dagli adulti in percorsi formativi.
Si assiste perciò ad una svolta nella visione del ruolo che la(e) lingua(e) madre(i) e le lingue del repertorio linguistico degli apprendenti giocano nell’apprendimento in genere, e nell’apprendimento linguistico in particolare. Considerate a lungo un ostacolo al successo scolastico e all’apprendimento delle altre lingue, ora sono percepite come un fattore facilitante e una risorsa cognitiva, emotiva e sociale a cui attingere.
Partendo da queste assunti ho pensato di inserire all’interno dell’atelier di scrittura un’attività meno strutturata, ma che sollecita a ripescare dal profondo il proprio repertorio linguistico, condividerlo con gli altri, permettere ad ognuno di notare ovvie differenze e sorprendenti elementi di similarità.
Ecco la traccia di lavoro:
Ognuno di noi ha una o più lingue che accompagnano il proprio percorso di vita. Scrivi le parole o le espressioni più significative cercando di motivare la tua scelta.
Nella(e) tua(e) lingua(e):
- la parola più usata
- la parola più dolce
- la parola che ti rende più felice
- la parola più triste
- la parola per esprimere disagio
Si tratta di un’attività che non ha creato spaesamento, perché durante l’anno l’attenzione al plurilinguismo è stata costante, è stato un filo rosso nella progettazione. Ecco solo tre piccoli estratti che hanno animato la classe.
Liljiana in lingua albanese.
La parola più usata nella mia lingua albanese è mirupafshim, un saluto che viene usato durante tutta la giornata e non solo, in italiano viene letta (mirupàfscim) che vuol dire arrivederci.
La parola più dolce per me è la prima dolcezza che ho incontrato da quando sono nata e che mi ha nutrito con dolcezza e amore. Siamo inseparabili anche se lei non è presente fisicamente; la parola è nene, in italiano mamma.
La parola che mi rende più felice è ndershmeri, che vuol dire onestà; mi fa sentire libera e orgogliosa e molto contenta per la fiducia che le persone hanno in me.
La parola più triste è vdekje, che in italiano vuol dire morte. Molte volte si esprimono in modo offensivo per evidenziare la debolezza di una persona; sei come un morto che cammina!
La parola per esprimere disagio è nje drame, in italiano un dramma vuol dire che è successa una cosa impensabile.
Duljia in rom kossovaro.
La parola più usata: mora cera buci te barvada se ka seniv me cave, che significa diventare ricchi, devo lavorare per far sposare mio figlio.
La parola più dolce: kamlije nashtiv bi ciro te siviv, amore non vivo senza di te,
La parola che ti rende felice: kana san harati ano cer, taj kana kametut, pace in casa ed essere amata.
La parola più triste: lufta, taj te hasare ce robonen bi kancesko, la guerra è perdere i propri cari senza una ragione.
La parola per esprimere disagio: kana ni mangentut stanlo prasantut hem porzantut, non essere accettata essere sempre discriminata e giudicata.
Stefania, giovane studentessa italiana.
La parola più usata a Napoli è guaglione, ovvero ragazzo, giovane aiutante.
La parola più dolce, secondo me, è riman, ovvero domani, ma anche rimani. È come se la parola volesse dire di rimanere anche domani, ed è particolare e profondo come concetto. Ce verimm riman, ci vediamo domani, come per dire che tu domani rimani.
Non c’è una parola in particolare, nel mio dialetto, che mi renda felice. C’è, però, un’espressione che un po’ mi fa sorridere: jamm, ja, indica incitamento nel fare qualcosa. Infatti significa andiamo, dai, ma è simpatica come espressione e a tratti fa ridere, specialmente se la si sente pronunciare, in più la associo a diversi momenti in cui ci ho scherzato, quindi mi porta bei ricordi.
Una delle parole tristi in napoletano è pucundria, non ha una comparazione in italiano, forse possiamo associarla all’ipocondria, ma la pucundria è uno stato di malinconia, incertezza, incompletezza, un dolore profondo scatenato interiormente. Mentre l’ipocondria si associa al costante bisogno di riguardare la propria salute causando sofferenza interiore e ansia. Quindi la pucundria non si diagnostica, è meno fisica dell’ipocondria. È difficile da spiegare a parole, infatti Pino Daniele, un cantante napoletano, scrisse una canzone proprio su questo. Furono poche le parole che usò, ma tra quelle e il suono della chitarra, cercò di esprimerlo. Appocundria ‘e nisciuno, ovvero Appocundria è nessuno.
Una parola per esprimere disagio, oppure imbarazzo, è marrazzu, ovvero imbarazzo, quindi provare disagio. Un altro modo di dire, invece, è M mett e’ scuorno, cioè Mi metto vergogna, letteralmente vergognarsi di qualcosa.
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